Influencer, un esercito di pessime maestre

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INDICE DEI CONTENUTI

Chi è l’influencer

L’inglesismo influencer indica una persona in grado di influenzare e, quindi, orientare un pubblico in una determinata direzione (ideologica, politica, commerciale etc…). Secondo Stefano Feltri (Il partito degli influencer, Einaudi 2022), nello specifico, “influencer è chi genera interesse”, quindi innesca emozioni e genera interazioni con i propri follower.

Se vogliamo, è l’involuzione in senso commerciale del vecchio concetto di opinion leader, una figura di intellettuale o editorialista che aiutava la formazione di un pensiero attraverso gli strumenti della retorica, della scrittura e dell’abilità nel saper smuovere e orientare le coscienze.

Nei prossimi paragrafi si riporteranno dati, storie (anche personali), considerazioni e riflessioni su questa figura esplosa con l’avvento dei social e collegata con una serie di dinamiche di cui il blog si occupa. Spesso si è preferito usare il “neologismo” influenZer(o), perché tale crasi (influencer e zero) rappresenta l’attuale realtà in cui si muovono queste nuove “imprenditrici di se stesse”, ovvero del nulla. L’influencer, per dirla con l’efficace sintesi dell’esuberante e sempre fuori dalle righe Vittorio Sgarbi, “è un pirla sfaticato che lucra su dei pirla danarosi incapaci di scegliersi da soli un paio di scarpe”.

Un esercito di 200 mila manichini

Il problema è che la sintesi, in questo caso, rischia di sintetizzare troppo un nulla che si è fatto sostanza, che è entrato nelle vite delle giovani e meno giovani e finisce per influenzarle irrimediabilmente.

Perché il punto è proprio questo. Da quando lo smartphone è entrato in modo irreversibile nelle nostre vite con i social, con la videocamera sempre accesa e con i sistemi di messaggistica, l’influencer effettivamente si inserisce stabilmente nel flusso costante di notizie e stimoli ai quali siamo sottoposti e riesce ad influenzare gusti commerciali e, in molti casi, anche lo stile di vita.

Secondo una recente ricerca, infatti, il 57% degli acquisti arriva su consiglio di questi personaggi. Viene da pensare a livello intuitivo che – essendo le donne più o meno il 50% della popolazione – sia proprio la parte femminile, con il suo carico di conformismo, di ostentazione e di necessità di adeguarsi alle mode, quella più sensibile a questi richiami. La buona parte delle influencer sono donne, e parlano alle donne, cioè alla parte della popolazione più stimolata a consumare.

Foto: Svetlana Solokova da Freepik

In totale, secondo quanto riportato in un recente articolo della Stampa, si stima che in Italia i professionisti nel settore degli influencer (sia uomini che donne, con le seconde presumibilmente in numero maggiore) sarebbero in totale 350 mila (inclusi 150 mila collaboratori). A spanne, quindi, ci sarebbero 200 mila influencer (suddivisi dai professionisti del marketing nelle categorie “mega, macro, micro e nano” in base ad una serie di metriche, prima fra tutte il numero di follower attivi), i quali sono parte di un mercato che ha raggiunto 308 milioni di euro nel 2022.

Si tratta di un vero e proprio “esercito” (quello vero, nella Penisola, ha meno di 100 mila soldati, tanto per fare una comparazione); un numero impressionante se si ragiona un attimo: considerando che in Italia (dati Istat al 1 gennaio 2022) vivono 59.030.133 individui, ci sarebbe in pratica un influencer ogni 295 abitanti, inclusi anziani e bambini. Va tenuto presente questo dato anche per capire come sia probabilmente un mercato saturo o, quantomeno, ci siano troppi (anzi troppe) che provano questa “strada”.

La forza dell’immagine

Un po’ di anni fa, una giovane milf italiana con una figlia adolescente e con qualche neurone ancora funzionante si lasciò scappare con me, quasi suo coetaneo, una considerazione interessante:

A mia figlia cerco di far capire che la Chiara Ferragni (ma vale per tutte le influencer, ndG) non è una di famiglia, non è sua madre o sua sorella maggiore, e che le sue scelte non devono influenzare la sua vita o le nostre dinamiche di vita quotidiana. E invece no, per mia figlia conta più di tutto ciò che l’influencer di turno fa rispetto ai valori che io e mio marito cerchiamo di trasmetterle.

Questo discorso spiegherebbe, in parte, come mai oggi le ragazze sembrano essere sempre più omologate, sempre più insoddisfatte, sempre più colpite dalla noia esistenziale e dal paradosso dell’abbondanza. Ad un (terzo) occhio lucido ed esercitato al confronto, fa impressione vedere come le giovani (e anche le meno giovani con il loro “non è mai troppo tardi”) connazionali siano accecate da questo modello che le trasforma in “tindagrammine” e quanto si sforzino per emularlo. D’altronde, questo è anche il risultato del fatto che si abbeverano tutte alla stessa fonte di ispirazione e sognano una vita fuori dalla loro portata.

La buona parte delle influenZer(o) sono infatti ambasciatrici di un certo stile di vita liquido, vacuo, senza valori (a parte quelli dati dai prezzi dei costumini adamitici e dei prodotti propagandati dalle influencer) e con una sessualità da mercificare in post ammiccanti e ad alto livello di epidermide esposta.

Foto: Lookstudio da Freepik

Vale in particolar modo per tutti quei settori ad alto tasso di frivolezza (moda, beauty e fashion), dove l’immagine, l’involucro deve spesso coprire la scarsa qualità del prodotto. Sono sostanzialmente manichini viventi, ben pagate per usare il proprio corpo per pubblicizzare qualcosa.

Recenti ricerche puntano l’indice contro questo culto dell’immagine veicolato da influencer photoshoppate e con filtri irrealistici (e tra poco se ne vedranno delle belle con l’intelligenza artificiale). Per le più giovani, il costante confronto sui social con queste pseudo-modelle è inevitabilmente perdente (si parla di ansia da paragone) e minaccia la tenuta della loro autostima, al netto di tutte le banalità propalate dal body positivity.

L’esposizione dei figli sui social

Molte influencer, inoltre, danno tranquillamente in pasto ai social i propri figli, con un’esposizione “mediatica” (detta sharenting) i cui effetti sulla psiche infantile devono ancora essere valutati. Il bimbo avrebbe il diritto di fare il bimbo, senza avere puntato contro uno smartphone 24/24 per farlo diventare uno “spettacolo nello spettacolo”, come se fosse un puccioso gattino in un video di TikTok.

I figli, in questo senso, vengono mercificati e strumentalizzati al pari di chi chiede l’elemosina in metro portandosi un bimbo in braccio.

A chi dice che le foto e i video ai bimbi sono sempre stati fatti, va ricordato che la circolazione di quei video e di quelle foto era limitata. Andavano ai parenti, al massimo a pochi amici. Non a centinaia di migliaia (se non milioni) di sconosciuti a cui permetti, in modo morboso e ai limiti del voyerismo, di curiosare nella tua vita e in quella dei tuoi figli.

L’effetto nefasto della condivisione delle foto dei figli da parte delle influencer sta nel fatto che è una pratica sdoganata e adottata in modo sempre più frequente dalla gente comune. Addirittura lo sharenting crea conflitti nelle coppie (non solo in quelle separate), fra chi vorrebbe limitare questa condivisione e chi, invece, non riesce a porsi alcun limite. Quest’ultima tipologia, secondo Diritto.it che ha studiato il fenomeno, riguarda in prevalenza le madri. Non sarebbe stato così difficile capirlo, considerando il peso delle influencer sulla componente femminile della società.

Quattro cortocircuiti dei super follower

Molte donne così come tanti cavalieri bianchi (nella vana speranza di essere notati dalle “femminucce”) cercano di difendere a spada tratta il lavoro delle influenZer(o). Lo fanno attraverso quattro risibili argomenti.

Il primo è quella tendenza deresponsabilizzante su cui la propaganda femminista ha allevato generazioni di militanti e di zerbini radical-chic sulla via del maschio-pentitismo. Questa propensione può essere riassunta attraverso formule passivo-aggressive quali “ma che male c’è?”, “ma a te che ti toglie?”, “il corpo è loro e ci fanno quello che vogliono!” e “ti cambia la vita?”. Si commentano da sole nella loro pochezza.

Il secondo argomento parte da un sentimento umano, cioè l’invidia. Nessuno nega l’esistenza dell’invidia, specie in un paese provinciale e tribalizzato come l’Italia. Ma confondere l’invidia con il diritto di critica (che non si fonda sull’insulto gratuito ma su puntuali contestazioni) è un errore da analfabeta funzionale e, nel caso maschile, anche da coniglietto woke e femminilizzato.

Il terzo argomento è un classico del vittimismo del cosiddetto “femminismo chiagni e fotti”. Vale a dire l’accusa di misoginia (la donna, in quanto essere umano, non ha alcun dogma di infallibilità), quella di sessismo (altro riflesso pavloviano) e quella di maschilismo (ormai talmente abusata da risultare ridicola).

Il quarto argomento sembra avere un fondamento, ma è anch’esso fallace. Si confonde infatti l’etica con la cotica, vale a dire che si scambia per marketing una forma di “marchett-ing” (per marchetta si intende, per estensione, un “lavoro non impegnativo fatto per compiacere qualcuno o per ottenere un minimo guadagno”). In pratica l’esposizione del corpo sostituisce ogni forma di contenuto. “Il mio corpo è un’arma” per usare uno slogan di qualche anno fa, utilizzato tuttavia per altri scopi.

Un obiettivo alla portata di tutte

Tutti questi elementi hanno creato legioni di ragazze che cercano ogni giorno il modo di svoltare la loro vita sui social (si veda il caso della prof di corsivo) per crearsi quel pubblico di follower che permetta loro una vita in vacanza senza lavorare veramente.

In questo senso, va fatta una brevissima digressione. Rivedere oggi il film del 2009 Videocracy – Basta apparire fa pensare che, nell’analisi del disagio esistenziale italiano, si pensava di aver toccato il fondo. E invece il fondo semplicemente non c’è. I social lo avrebbero dimostrato.

Immagine dal web

Torniamo alle ragazzine odierne interessate a fare le influencer. I conflitti emergono solo nel (sempre più raro) caso in cui queste fanciulle abbiano alle spalle una famiglia solida formata da un padre e una madre che remano nella stessa direzione, hanno obiettivi chiari e non hanno problemi ad andare contro la “modernità”.

Negli altri casi, spesso i genitori nemmeno si accorgono di cosa faccia la loro figlia con quello smartphone, quali contenuti guardi, da quali si faccia influenzare nelle proprie scelte e con chi si rapporti sui social.

L’influenZer(o) è, in fin dei conti, una di loro che ce l’ha fatta, che ci ha creduto, che ha mostrato la mercanzia nel modo giusto e che si è affidata alle persone giuste. Una volta la stessa Ferragni, che in Italia è la “regina” delle influencer, se l’è lasciato scappare, seppur oltre le proprie intenzioni: “[…] Se ce l’ho fatta io potete farcela tutti voi. Ci credo tantissimo e credo tantissimo anche in voi” (la citazione è ripresa da un estratto del libro Essere Chiara Ferragni di Federico Mello – Compagnia editoriale Aliberti, 2022).

Che serve per diventare influencer?

A parte la fotogenicità (perché di quello si tratta in molti casi, più che di autentica bellezza), il numero di follower, una certa dose di spregiudicatezza e lo stile di vita – spesso da vera e propria golddigger – ostentato sui social (ci sono ragazze che con stratagemmi vari entrano in ristoranti di lusso solo per farsi selfie), non ci sono grandi differenze fra un’ignorante shampista (di Chivasso o di Mondragone, poco cambia) e un’influencer.

Questo è probabilmente il vero dramma epocale. Non ci sono abilità da apprendere, talenti da far fruttare, creatività da sviluppare, anni di studio o gavetta, strumenti musicali da imparare a suonare, una carriera artistica o di qualsivoglia tipo da affrontare.

No, niente di tutto ciò. Basta non essere completamente asociale (o, quantomeno, saper recitare la parte di quella comunicativa), avere un bel sorriso e una sfacciataggine superiore alla determinazione, essere un minimo fotogenica (nonché esibizionista) e mettere le cosce al sole dei social.

Poi la speranza è che abbocchino parecchi orbiter, che capiti un colpo di cu… fortuna (come successo ad Olga Kalenchuk) che la proietti per un attimo nell’Olimpo delle attenzioni e le faccia guadagnare abbastanza follower da avere il proprio target di riferimento a cui vendere un prodotto.

L’eventuale salto di qualità

Certo, nel momento in cui l’influencer arriva ad un certo livello di visibilità (che dipende sempre dall’ambito di riferimento), le tocca spesso fare un salto di qualità. In genere il percorso è quello di affidarsi ad agenzie specializzate che mettono insieme la domanda di pubblicità con l’offerta, che studiano il mercato di riferimento offrendo soluzioni alle aziende che vogliono pubblicizzare un prodotto o un servizio.

Il tutto viene completato anche da eventuali agenzie di professionisti che si occupano della produzione dei contenuti (con piccoli team di fotografi, videomaker, creativi, truccatrici), della gestione dell’immagine dell’influencer, della sua formazione a rispondere a comando come un robot etc. (in America, come è emerso dal caso di Britney Spears, queste agenzie entrano pesantemente nella vita della star che seguono, in Italia non pare esserci questo livello, o quantomeno non se ne ha ancora cognizione)

Ovviamente all’utente finale, salvo che non abbia un occhio particolarmente smaliziato, sfugge tutto questo processo: lui beneficia del risultato finale, cioè quei 5-10-15 o massimo 30 secondi di attenzione richiesti dal format per avere conteggiata la metrica della visualizzazione, nella speranza che ci siano interazioni tese a stimolare l’algoritmo. Una vera e propria ruota del criceto, in fin dei conti.

Follower: amore e odio

Prima che diventasse “famosa” nel suo ambito di nicchia con decine di migliaia di follower italiani, ebbi un’avventura sessuale con quella che era allora una modellina con un’aspirazione a diventare influenZer(o). Nel pochissimo tempo che ci frequentammo, ricordo la sua ossessione nel controllare i social, specie Instagram, e la sua “ansia da prestazione” per ogni suo post.

Foto: Drobotdean da Freepik

Era attenta a rispondere, seppure a monosillabi, a tutti i commenti e, in seconda battuta, ai messaggi degli orbiter. Lei, pur essendo consapevole che la sua scalata social era dovuta anche a questo engagement fatto dai morti di figa, li disprezzava e li considerava solo numeri di un ingranaggio che le dava visibilità.

Non accettò la mia critica sul fatto che questi “mendicanti” virtuali di centimetri di pelle nuda fossero solo mangime per alimentare il suo “ego”. Lei li considerava una fastidiosa controindicazione sulla strada del “successo”, ma non voleva ammettere che quelle attenzioni la lusingassero oltre le proprie intenzioni.

Tuttavia era proprio quella coazione a ripetere di like e commenti, come già visto, a costituire la base della viralità di un contenuto.

La ricerca del contenuto virale

Qui c’è un punto importante. La spietata competizione delle influenZer(o), specie quelle in erba, è proprio nella ricerca del contenuto virale (si veda il meccanismo dei meme), per il quale sono disposte a fare di tutto, a lottare – letteralmente – sul filo del perizoma e ad ingoiare bocconi tanto amari quanto indigesti (i più maliziosi si astengano da altri retropensieri, per quanto certificati da casi di cronaca verificatisi a Dubai).

Anche le influencer consolidate devono sempre mantenersi sulla cresta dell’onda, ma quantomeno si avvalgono di uno staff di collaboratori che dovrebbe anche fornire e verificare uno storytelling sempre coerente con il personaggio creato e venduto sui social (questo, ad esempio, dovrebbe essere uno dei punti di “forza” della Ferragni, ma anche lì si notano sbavature, a dimostrazione della finzione).

Se ogni ragazza ben conosce sin da piccola il principio di Cenerentola, nell’era dei social tutte sentono a portata di piede quella famosa scarpetta (con annessa corona da reginetta all’amatriciana).

La “gerarchia” non è femmina

Tra l’altro, mentre fra gli uomini esiste una “gerarchia” dovuta ad una serie di fattori e sostanzialmente accettata, fra le donne questa “gerarchia” è molto più precaria, per non dire inesistente (si veda, per approfondimenti, l’intervista rilasciata dalla psicologa Andreana Pettrone in merito, dove spiega anche perché le ragazzine talvolta siano più violente dei ragazzi).

D’altronde il fatto che le donne siano pronte a sovvertire la gerarchia grazie al potere sessuale era stato già evidenziato nel 1800 da Alphonse Karr, acuto e caustico osservatore delle dinamiche sociali:

La disuguaglianza fra le donne non si manifesta tanto chiaramente come fra gli uomini. Lo spirito, l’ingegno, una certa autorità separano abbastanza gli uomini fra loro; ma fra le donne non ci può essere che una vera disuguaglianza: quella della bellezza. Le serve come le padrone lo sanno bene e non esiste una donna che non abbia paura d’aver vicino a sé una serva troppo bella.

Per quanto questi concetti siano ostici all’attuale clima di politicamente corretto, ciò non significa che essi non siano sempre validi.

Dallo studio televisivo alla cameretta

Sotto alcuni aspetti, tutta questa deriva non è proprio una grande novità. Il terreno su cui sono stati gettati certi semi era già stato arato in Italia.

Negli anni ’90, il programma Non è la Rai aveva già cominciato a far passare il messaggio secondo cui una qualsiasi teenager, purché fosse carina e un minimo comunicativa, era in grado di condurre una trasmissione televisiva e fare audience con qualche balletto da lolita ammiccante.

Foto: Javi_Indi da Freepik

C’è una differenza fra ieri e oggi. Negli anni ’90, per questo tipo di programmi televisivi e per una carriera nel mondo dello spettacolo, le ragazze dovevano superare una serie di ostacoli (inclusi una serie di personaggi squallidi alla ricerca di carne fresca). Dovevano trovare un’agenzia specializzata. Andare a Roma o a Milano, quindi spostarsi fisicamente. Dovevano essere pronte a sostenere una sorta di training e le prove. Dovevano rapportarsi con una struttura gerarchica di produzione (autori, registi, coreografi, etc…).

Oggi la situazione è cambiata (detto fra parentesi: è un bene che Internet abbia permesso un “pluralismo” che altri media non offrivano; tuttavia ci sono controindicazioni). È sufficiente un iPhone o uno smartphone con cui fare foto e video, e qualunque donna avrà davanti praterie da cavalcare alla ricerca di un pubblico di ragazzi “bisognosi”, di disagiate Concettine/Silvie alla ricerca di modelli a cui ispirarsi e di “guardoni” virtuali. Tutto ciò rimanendo a casa, nella propria comfort zone.

Tralasciando le abilità sociali e relazionali (che non vengono sviluppate), tutto questo meccanismo crea una pericolosa illusione: il successo è a portata di clic, anche se non ho nient’altro da offrire eccetto un corpo sempre più spogliato e sessualizzato (a pensarci bene, è lo stesso meccanismo che subentra nelle relazioni: sono donna e in quanto tale basto e avanzo, non ho altro da mettere sul tavolo, al contrario dell’uomo).

Prima o poi, però, la realtà della vita potrebbe bussare alla porta. A quel punto, una parte di queste illuse (e poi successivamente “deluse”, per dirla con la famosa canzone di Vasco Rossi dedicata proprio alle teenager di Non è la Rai) finirà per sfruttare la solitudine maschile attraverso altri tipi di piattaforme (il sempre più sdoganato Onlyfans ormai sta diventando un Instagram per disperati guardoni, con  sex worker che sgomitano sui media e sui social per procacciarsi abbonati), continuandosi a professare vittime del presunto patriarcato e del “tetto di cristallo” che pensavano di sfondare soltanto sguainando la coscia o mostrando il lato B sui social.

4 pensieri riguardo “Influencer, un esercito di pessime maestre

  1. Io ancora non mi capacito di come sia possibile seguire personaggi del genere.
    Posso capire i content creator su youtube che ti forniscono conoscenza, humor o qualcosa che ti accresca, ma questi influenzero sono proprio un’anomalia del sistema.

    Posso capire alcuni profili di modelle / venditrici di cosce che attirano orbiter e MDF, ma
    guardando ad esempio i post della Ferragni, non mi capacito perché una donna dovrebbe seguirla: 0 contenuti informativi ma solo qualche foto della sua vita.
    Che cosa si aspettano di ottenere guardando assiduamente i suoi post? di divenire come lei in qualche modo?

    Mi ha ulteriormente stupito un canale che possiede un sacco di iscritti, like e commenti positivi, che a primo impatto dovrebbe fornire recensioni alla Clio Make up, eppure i video in questione erano in formato short (dunque di 1 minuto).
    Ingenuamente mi son chiesto: come fai a recensire un prodotto in 1 minuto?
    Ho speso ben 10 minuti della mia vita per vedere 10 di questi video alla ricerca di un senso, ebbene finito l’ultimo video, la mia domanda è rimasta senza risposta.
    In ogni video c’era un tizio che faceva “no” con la testa mentre dietro di lui scorrevano delle clip di un inestetismo, e poco dopo iniziava ad annuire mostrando il prodotto che stava sponsorizzando. Fine.
    La mia speranza rimane che fossero tutti bot a commentare, ma non voglio fare lo struzzo, tuttavia continuo a non capacitarmi del degrado sociale che continua imperterrito nella corsa verso il nulla.

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  2. “quantomeno si avvalgono di uno staff di collaboratori che dovrebbe anche fornire e verificare uno storytelling sempre coerente con il personaggio creato e venduto sui social”

    Ho finito di leggere questo post oggi e, ironia della sorte, nelle ultime ore si sta parlando molto dell’ influencer più famosa d’Italia e dello scandalo legato a un certo dolce.

    La realtà ha offerto, con tempismo perfetto, un esempio di come questi personaggi siano costruiti e come lo storytelling, a volte, fallisca.

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  3. Ricordo bene il film-documentario “Videocracy” degli anni 90, uno squallore ed una tristezza infinita dove anch’io pensavo d’aver visto il peggio; poi sono arrivati i social e le influenZero e mi sono reso conto che alla demenza e disagio non vi sono limiti.
    La “professoressa” del corsivo ne è la prova.
    Se persino il “Sole 24ore”, come ho letto, esalta queste misere figure, allora è proprio finita…
    Sono anni che mi sforzo di capire cosa ci sia d’interessante in queste nullità, anche se sono convinto che solo un centesimo di quei babbei (follower) iscritti segue realmente e non trovo spiegazione logica e meno ancora piacere a leggere tutte le loro boiate, soprattutto nei vari commenti che queste cerebrolese pensano che tutti leggano, mentre tra migliaia è vero il contrario.
    Questo fenomeno è lo specchio dei nostri tempi dove vige la grassa ignoranza e la convinzione di potercela fare tutte dandola a quelli giusti.
    A tale proposito ritengo ancora attuale la canzone “Delusa” di Vasco Rossi coniata circa 30 anni fa.
    In futuro sarà la “colonna sonora” di parecchie di queste disperate e sgallettate in cerca di una vita facile e con altissime e immeritate pretese che finiranno, come già accaduto più volte, in fatti di cronaca nera dove questi disperati\e arrivano ad uccidere persino i genitori per l’eredità e vivere senza lavorare.
    Ecco qui i risultati del “KEMMALECIE’”…

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